Posted: 06 Aug 2016 11:00 PM PDT
Nella Chiesa si è imposta una neolingua di stampo orwelliano.
Il processo va avanti da tempo, ma negli ultimi anni ha avuto
un’accelerazione impressionante. I due Sinodi sulla famiglia (del 2014 e
2015) lo hanno in qualche modo solidificato. Nel romanzo 1984, George
Orwell spiega che la neolingua era la lingua ufficiale imposta dal
Grande Fratello per sostituire la vecchia visione del mondo, le vecchie
abitudini mentali e, soprattutto, per rendere impossibile ogni altra
forma di pensiero che non fosse quella imposta dal Grande Fratello
stesso e dal suo Partito unico, il Socing.
Ebbene,
mutatis mutandis, sembra essere proprio quello che sta accadendo nella
Chiesa. L’Associazione “Tradizione, Famiglia e Proprietà” (TFP) ha dato
alle stampe un agile volumetto, “Una rivoluzione pastorale. Sei parole talismaniche nel dibattito sinodale sulla famiglia”,
scritto dallo studioso Guido Vignelli e con la prefazione di mons.
Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana (Kazakhstan). Il testo
aiuta il lettore a orientarsi nel nuovo linguaggio utilizzato dai
documenti ecclesiali usciti dai due Sinodi. Pur essendo stato ultimato
prima della pubblicazione di Amoris laetitia, l’esortazione apostolica
di Papa Francesco rientra a pieno titolo nella disamina fatta da
Vignelli.
In
sintesi, come nota l’autore, “questo linguaggio veicola una nuova
pastorale che favorisce un cambiamento di mentalità e di sensibilità
tale da insinuare una nuova teologia”. Non è una novità. Già san Pio X,
nel 1907, affermava che “i modernisti involgono i loro errori in certe
parole ambigue e in certe formule nebulose, allo scopo di prendere gli
incauti nei loro lacci, ma tenendosi sempre aperta una via di scampo per
non subire un’aperta condanna”. La tecnica – che Vignelli riassume in
appendice – è quella del “trasbordo ideologico inavvertito”, concetto
coniato dal pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore
della TFP. In pratica, il ricorso a parole cosiddette ‘talismaniche’
serve per trasbordare i fedeli da una posizione vera ad una falsa. Ed il
passaggio è, per l’appunto, inavvertito, indolore. La tattica è di
evitare l’affermazione di errori espliciti, ricorrendo piuttosto a
“parole ambigue e scivolose che, pur avendo una origine cristiana, sono
state sequestrate e strumentalizzate da una cultura anticristiana per
diffonderle negli ambienti cattolici al fine d’inquinarli e disporli al
cedimento e alla resa al nemico”. Insomma, si definiscono tali parole
‘talismaniche’ perché, “pur sembrando banali e innocue, nel linguaggio
in cui vengono usate esse possono esercitare una pericolosa influenza
che tende a manipolare la mentalità di chi le usa mediante una tecnica
implicita di persuasione psicologica”.
Tra quelle più citate nel dibattito sinodale e maggiormente in voga ai giorni nostri, Guido Vignelli ne ha individuate sei.
Inizia con il termine ‘pastorale’.
Quante volte abbiamo sentito ripetere che la dottrina non cambia ma va
invece adeguata la pastorale? Ebbene, la pastorale dovrebbe essere la
modalità con cui i pastori della Chiesa guidano le anime verso la
salvezza eterna. Se ne deduce che la prassi pastorale non può mai essere
disgiunta dalla verità dottrinale: sono due facce della stessa
medaglia. Da anni, però – e i Sinodi ne sono stati la prova -, si
ricorre al termine pastorale per far sì che cambi la dottrina. Con la
scusa dei tempi che cambiano e delle nuove esigenze e situazioni dei
fedeli, si finisce per mettere in soffitta la legge di Dio e la Sacra
Scrittura. E infatti si parla di “conversione pastorale” della Chiesa,
in modo che “dogmatica, morale, diritto e liturgia si adeguino alle
esigenze dell’uomo moderno”, e non il contrario, come invece dovrebbe
essere.
C’è poi la parola ‘misericordia’.
La Chiesa ne ha sempre parlato e l’ha sempre vissuta. In due millenni i
preti hanno sempre confessato e assolto miliardi di fedeli. Eppure
sembra sia una scoperta di qualche anno fa… Il problema è che oggi per
misericordia si intende perdono a buon mercato: tutti si salvano e tutti
sono perdonati, senza bisogno di alcun pentimento. Ma questo è un vero e
proprio stravolgimento della verità. Anzi, una bestemmia che porta le
anime alla dannazione.
Veniamo poi al termine ‘ascolto’.
Si dice che la Chiesa deve porsi in ascolto, più che insegnare,
arrivando persino a mettere in dubbio “certezze ritenute indiscutibili e
sicurezze ritenute irrinunciabili”. Ne deriva che, “per la pastorale
dell’ascolto, l’importante non è più che l’uomo sia in sintonia con la
volontà divina, bensì solo l’essere sinceri, in pace con sé stessi e con
gli altri; l’esserlo con Dio ne sarebbe un’automatica conseguenza”. In
tal modo – lo abbiamo visto con i questionari somministrati in maniera
assai discutibile prima dei Sinodi – la Chiesa si appiattisce sulla
sociologia, pensando che la sua missione sia solo “fornire un vago
servizio all’umanità”.
E cosa dire del ‘discernimento’?
Tale parola indica lo strumento per analizzare le situazioni
problematiche. Perciò, diventa vietato esprimere giudizi e chi non si
adegua a questa nuova strategia pastorale viene severamente redarguito
ed emarginato. Discernimento significa quindi ascoltare il diverso e
valorizzare la sua diversità, perché bisogna tener conto della
complessità delle situazioni. Ecco allora che “la complessità diventa un
pretesto per eludere il problema ed evitarne la cura risolutiva ma
spiacevole”. Nella pastorale di oggi evidentemente non c’è più spazio
per il sacrificio e la croce. Si giunge così al concetto di famiglie e
persone ‘ferite’: in tal modo “la situazione viene scusata o addirittura
giustificata come se fosse insuperabile, mentre chi si ostina a
rimproverarla viene accusato di mancare di misericordia”. Ciò che conta
sono le “relazioni affettive di qualità”, ovvero quelle in cui ci si
impegna a vivere “una unione autentica e stabile che comporti il
reciproco aiuto materiale e morale”. Non c’è da stupirsi pertanto se non
si usano più i termini ‘immorale’ o ‘irregolare’ per i conviventi more
uxorio o per le coppie omosessuali: di fatto si passa dalla tolleranza
del male alla sua piena accettazione. Il tutto in nome della dolcezza,
del dialogo, della misericordia e dell’accompagnamento.
Già, ‘accompagnamento’
è un’altra parola talismanica. Non si tratta più di accompagnare il
peccatore alla conversione, perché “ogni via, per quanto pericolosa,
purché sia scelta liberamente dall’uomo, conduce comunque alla meta
della salvezza”. Questo discorso vale pure per la società. Abbandonato
l’obiettivo di costruire la civiltà cristiana, la Chiesa “deve
accompagnare i processi culturali, seguirne l’evoluzione storica,
incoraggiarne l’ammodernamento in senso pluralistico, senza pretendere
d’imporle un modello storicamente sorpassato”. In buona sostanza, deve
favorire un mondo non tanto scristianizzato, quanto piuttosto – e lo
vediamo ogni giorno – anti-cristiano. Deve sposare dunque una strategia
suicidaria.
Infine, l’ultimo termine preso in esame da Vignelli è ‘integrazione’.
Molti sostengono che la comunione con la Chiesa e con Dio può essere
solo parziale. Pertanto, occorre accogliere le diversità, abbattere
mura, gettare ponti, superare le discriminazioni attraverso
l’inclusione. Pretendendo però di integrare nella Chiesa quanti per
ragioni oggettive non possono essere assimilabili, si favorisce la
disintegrazione. Ovvero la dissoluzione: altra scelta suicida.
Ebbene,
chi ama non vuole la morte dell’amato e non lo porterà certo ad
uccidersi. Lo stesso vale per la Chiesa. Se i pastori preposti a
guidarla e custodirla adottano rivoluzioni pastorali e dottrinali - ben
celate dietro parole ambigue - volte a danneggiare il Corpo Mistico di
Cristo, le possibilità sono due: o sono degli ingenui, e allora per
ovvie ragioni dovrebbero essere privati di ogni incarico, oppure sono in
mala fede e al servizio di qualcun altro (“non si possono servire due
padroni”, dice Gesù nel Vangelo). Grazie a Dio, sappiamo però con
certezza che “portae inferi non prevalebunt”!
http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2016/08/federico-catani-quelle-parole.html
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